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Ci vediamo a casa - Recensione

28/11/2012 | Recensioni |
Ci vediamo a casa - Recensione

La casa e l’amore. Insieme, per davvero. Ma non è facile far quadrare tutto, in tempi di crisi poi!
Tre giovani coppie intrecciano le loro storie sullo sfondo di tre quartieri diversi di Roma. Sei personaggi sono alle prese, in modo diverso, con la difficoltà di portare avanti un rapporto e con il tentativo di vivere sotto lo stesso tetto.
Vilma (Ambra Angiolini), bibliotecaria, e Franco (Edoardo Leo), ex detenuto, vivono in periferia e sognano una casa dove vivere un po’ d’intimità e costruire il loro futuro. Così, pur di vivere insieme, accettano l’ospitalità di Giulio (Antonello Fassari), un tranviere in pensione colpito da infarto e amico di entrambi. Ma la convivenza si rivela più difficile del previsto. Gaia (Myriam Catania) e Stefano (Giulio Forges Davanzati) non hanno problemi economici e si sono appena conosciuti al circolo del tennis di cui il ragazzo è proprietario. Gaia, figlia di un uomo facoltoso e corrotto, sta arredando il suo nuovo loft, mentre Stefano vive una vita da scapolo. A causa dei guai giudiziari del padre, Gaia è costretta a trasferirsi a casa del ragazzo ma entrambi scoprono di non essere adatti a vivere insieme. Enzo (Nicolas Vaporidis) e Andrea (Primo Reggiani) sono omosessuali e si sono appena conosciuti. Il primo vive a casa con la madre (Giuliana De Sio) cerca lavoro e per hobby canta in un coro, il secondo è un poliziotto che dorme in caserma. I due si innamorano e tutto sembra filare liscio ma a complicare le cose ci si mette quella mamma un po’ ingombrante e qualche indagine di troppo della polizia. 
Sei personaggi in cerca di… dimora. Ma, non c’è proprio nulla di pirandelliano in questa commedia. E’ invece il titolo “canterino” (ricordate la canzone portata al successo da Dolcenera lo scorso Sanremo?) a suggerire il tema. Ci vediamo a casa, l’invito suona come il desiderio (di non facile realizzazione) di tre coppie giovani e carine cui presta il volto una squadra che riunisce alcuni dei volti più “carini” (appunto) del cinema italiano di oggi: da Ambra Angiolini a Nicolas Vaporidis passando per Myriam Catania e Primo Reggiani. Ma, mentre i giovani interpreti si limitano a un compitino più o meno onesto, l’unica a lasciare il segno è la guest-star Giuliana De Sio (attrice-feticcio di Ponzi che la tenne a battesimo poco più che ventenne in una riduzione televisiva di Hedda Gabler da Ibsen e che portò al successo al cinema con Io Chiara e lo scuro) nei panni di una mamma ex hippy, falsamente liberale e comprensiva, che detesta le forze dell’ordine, fuma canne e cita Fragole e sangue e I segreti di Brokeback Mountain davanti al figlio gay.  
Il veterano ultrasettantenne Maurizio Ponzi torna alla regia cinematografica dopo una lunga fase di regie televisive (tra le quali ricordiamo la fiction di successo Il bello delle donne) e lo fa con una commedia agrodolce (genere di cui è stato per anni maestro) che però può dirsi riuscita a metà.
Il film si muove infatti tra personaggi e situazioni scontate avvolte da una patina di piatto conformismo e piena zeppa di stereotipi. Anche il pur ammirevole tentativo di colorare ognuna delle tre storie con sfumature diverse (una più naturalista e sanguigna per la prima, una più cinica per i due belli-ricchi-e-superficiali della seconda e una più sentimentale per la storia gay), finisce per rimanere ingabbiato in una confezione da favola metropolitana disincantata quanto basta ma che non punge come dovrebbe (o potrebbe).
Peccato perché il tema poteva essere trattato diversamente dalla squadra di sceneggiatori che comprende, insieme al regista, Piero Spila, Stefano Tummolini e nientemeno che Giancarlo De Cataldo. Peccato (ancora) per la brillante trovata finale di far confluire tutti i personaggi in una chiesa facendo in modo che il valore simbolico del luogo si carichi di significati diversi per ognuna delle coppie. Proprio la casa di Dio (e non la tanto desiderata dimora di noi mortali) suggella infatti alla fine le tre unioni con tre tipi di "matrimoni" diversi in un azzeccato gioco tra sacro e profano che è una delle poche cose davvero riuscite del film.
In fin dei conti un’occasione sprecata e, quando si tratta di cinema italiano, dispiace sempre doverlo constatare.

Elena Bartoni
 

 


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